Arte del Rinascimento tra Italia e Slovacchia

a cura di Dorian Cara

Sintetica analisi dei rapporti tra storia e arte di due mondi europei solo apparentemente lontani

Per poter comprendere le origini del Rinascimento slovacco e il legame creatosi nel tempo con quello italiano, bisogna necessariamente fare una premessa storica focalizzata sulla storia dell’Ungheria, di cui la storia slovacca, anche se parzialmente, ne è interessata.

Stefano I il Santo (997-1038), patrono e cristianizzatore delle terre magiare e dell’Europa Orientale, pose le basi di un’influente quanto potente monarchia che durò fino ai primi anni del Trecento, grazie ad un’importante politica espansionistica, al rafforzamento del potere dei nobili, alla Bolla d’Oro del 1222 emanata da re Andrea II, passando attraverso l’invasione dei Tartari nel 1241, per arrivare alla salita al trono di Andrea III.

Tutti questi momenti sono fondamentali per comprendere ciò che si svilupperà in questa parte di Europa nei due secoli successivi, fra XV e XVI secolo.

Con la morte di Andrea III si estinse la dinastia degli Àrpàd e nella disputa successoria tra le famiglie degli Angiò e degli Asburgo intervenne papa Bonifacio VIII, che assegnò la corona a Roberto d’Angiò. Con il suo successore, Luigi I il Grande, le terre del regno ungherese raggiunsero la massima espansione, tanto da mirare anche al Regno di Napoli.

Il più incisivo artefice dello sviluppo culturale in senso umanistico e rinascimentale della Slovacchia, sebbene fosse a quel tempo provincia periferica del Regno d’Ungheria, fu Mattia Corvino, sovrano illuminato, eletto nel 1458, che fondò diversi luoghi di cultura nelle città del suo regno e intrattenne stretti rapporti con le corti milanese, fiorentina, napoletana e papale, importando – si consenta il termine – il rinascimento italiano nelle proprie terre.

A Mattia Corvino, il cui termine “corvino” gli fu attribuito dal biografo ed umanista ascolano Antonio Bonfini, il quale affermava che la famiglia Hunyadi, sul cui stemma era ritratto un corvo, discendeva dalla famiglia antico-romana dei Corvini, si deve la fondazione nel 1467 del centro di studi umanistici slovacchi per eccellenza: l’Accademia Istropolitana.

La massima espressione del rinnovamento culturale di Mattia Corvino fu però la famosa Biblioteca Corviniana di Buda, tra le più ricche e preziose del Quattrocento europeo grazie alle circa cinquemila opere soprattutto di autori latini e greci, affidata al bibliotecario umanista Taddeo Ugoleto. In essa erano presenti testi di teologia, letteratura, geografia, scienze, filosofia, storia, diritto, medicina ed architettura. Ad eccezione di un testo di Aristotele in latino stampato a Venezia tra 1483 e 1484, i testi nella biblioteca erano tutti manoscritti e la maggior parte furono fatti trascrivere dallo stesso Mattia Corvino, avvalendosi di miniaturisti italiani come Attavante Attavanti, Gherardo di Giovanni di Miniato o Francesco d’Antonio del Chierico, oltre a fondare un’apposita scuola nella capitale ungherese.

La Biblioteca Corviniana divenne la più grande dell’Europa continentale a nord delle Alpi, seconda solo alla Libreria Vaticana, conservano la maggior parte dei testi scientifici dell’epoca.

Dopo l’invasione turca del 1526, ad opera di Solimano il Magnifico, la maggior parte dei testi furono distrutti o trafugati e portati a Costantinopoli. Tra questi, circa 650 codici, furono ritrovati da una delegazione ungherese nel 1862 e oggi sono conservati nelle principali biblioteche ungheresi ed europee.

Evidentemente Mattia Corvino ha attinto moltissimo dalla cultura italiana e importandola nel suo regno, ha implementato e sviluppato arti e bellezza, generando un nuovo quanto più ricco orizzonte culturale. Ed è per questo che bisogna sottolineare anche i rapporti già esistenti tra le due terre, con una specifica attenzione ai corrispettivi benefici.

L’argomento sarebbe troppo lungo da trattare e quindi questo contributo cercherà di tracciare, sebbene sommariamente, quei rapporti che sin dal XIV secolo sono intercorsi tra Italia e regno d’Ungheria, e quindi la moderna Slovacchia.

Già alla fine del XIV secolo sono documentati importanti rapporti tra Milano e l’Ungheria, come la presenza, nel 1391, dello scultore Lasse d’Ungheria e della sua bottega, composta da circa cento scalpellini, presso la Fabbrica del Duomo di Milano per la realizzazione dei mascheroni dei mensoloni che decorano alcuni peducci del basamento della cattedrale, elementi rivelatori delle particolari assonanze con alcune frammentarie sculture tardogotiche ritrovate nel 1974 durante gli scavi del Palazzo Reale di Buda.

Siamo al tempo di re Sigismondo (1368-1437), epoca caratterizzata da vivaci collegamenti culturali e politici tra Lombardia, Veneto ed Ungheria, di cui emergono tre interessanti spunti, riscontrabili ad esempio in elementi di carattere architettonico.

Da ricordare che Sigismondo fece un viaggio in Italia, a Como, Milano, Lodi, Cremona e Piacenza, dove potè ammirare cultura, arti e architetture religiose e militari di quei territori.

In primis, una delle tipologie più caratteristiche dell’architettura civile del periodo è il castello a struttura rettangolare con quattro torri angolari. Il parallelo più stretto è offerto dai castelli dei Visconti, ma le piante non sono del tutto uniformi. Gli esempi lombardi possono sì avere avuto una loro influenza, ma più come suggerimento generico che come concreto modello architettonico.

Secondo elemento rilevato sono le finestre del castello di Buda, residenza di Sigismondo, che avevano cornici in terracotta, i cui motivi decorativi possono essere collegati a quelli diffusi in Lombardia, ma anche in altre regioni dell’Italia settentrionale, cosa che non permette al momento di identificare quali siano gli specifici monumenti italiani qualificabili come fonte diretta per i plasticatori di Buda.

Terzo ed ultimo, il complesso decorativo del portale maggiore della chiesa di Santa Elisabetta a Kassa (Košice) che trova i suoi più stretti e antichi paralleli nell’antica facciata di Santa Maria Maggiore a Milano e nella cattedrale di Mantova. Tuttavia, il carattere tipicamente veneziano di questo monumento crea però qualche incertezza sulla diretta connessione con la Lombardia, lasciando aperta l’ipotesi di connessioni indirette con l’Ungheria attraverso il Veneto.

Il XV secolo fu certamente il secolo più interessante per i più stretti contatti che caratterizzarono le due culture, la politica e le dinastie italiane ed ungherese.

Il fulcro di tutto, come già accennato, fu Mattia Corvino che preoccupato per l’intesa tra l’imperatore Federico III e il principe di Borgogna Carlo il Temerario, strinse nel 1473 un’alleanza con Milano, città che adottò un orientamento francofilo contro gli Asburgo.

A questo si aggiunga il riconoscimento da parte della casata lombarda degli Sforza del figlio illegittimo di Mattia, János Corvino, e la proposta di matrimonio tra lo stesso János e Bianca Maria Sforza, figlia di Galeazzo Maria e Bona di Savoia.

L’unione fu osteggiata dalla moglie di Mattia, Beatrice d’Aragona che voleva per il figlio il matrimonio con la figlia di Federico d’Aragona, nata da una principessa francese, al fine di mantenere e consolidare i legami dinastici con il re Luigi XI di Francia.

Il contratto matrimoniale per procura con Bianca Maria fu stipulato solo nel 1487, ma il matrimonio, fissato per la primavera del 1489, fu posticipato a causa delle cattive condizioni di salute del sovrano ungherese. Con la morte di Mattia, il 6 aprile 1490, e l’infruttuosa elezione di János Corvinus a re d’Ungheria, il matrimonio fallì e nel 1494 Bianca Maria Sforza sposò l’imperatore Massimiliano II, nemico di Mattia e János, segnando così una svolta decisiva nei rapporti tra le due nazioni.

Al di là delle questioni dinastiche cosa ci rimane dei rapporti tra Mattia Corvino e il Rinascimento italiano?

Innanzitutto le miniature dei codici prodotti presso la corte reale di Buda che testimoniano i legami tra l’arte lombarda e quella ungherese dell’ultimo quarto del Quattrocento.

La natura straordinariamente eclettica della miniatura ungherese di questo periodo, fa ipotizzare che miniaturisti stranieri fossero stati invitati ad andare a lavorare a corte e che i miniaturisti ungheresi abbiano attinto a immagini, composizioni, motivi decorativi e altri elementi fondendo i temi stilistici con quelli già presenti a disposizione del regio scriptorium, arricchendo così i temi tradizioni locali.

I codici superstiti possono essere suddivisi, tenendo conto sia della cronologia che delle principali tendenze stilistiche, in due grandi gruppi. Il primo, databile intorno al 1481, caratterizzato dall’attività di Francesco da Castello in Ungheria, mentre il secondo risalente agli anni 1485-1490, vede nel miniatore noto come il Maestro del Cassiano di Parigi l’artista più significativo.

Certamente i mecenati ungheresi dell’epoca chiamavano miniaturisti lombardi o nord italiani piuttosto che i miniaturisti di Firenze, che all’epoca era il principale centro di importazione di codici a Budapest, grazie soprattutto alla bottega di Attavante Attavanti, miniatore di Castiglion Fiorentino, allievo di Francesco d’Antonio del Chierico, influenzato dal famoso pittore Domenico Ghirlandaio e da Antonio Pollaiolo che ebbe una fiorentissima bottega.

Mattia Corvino assunse almeno due volte uno dei più importanti miniaturisti attivi alla corte sforzesca, Giovan Pietro Birago, eccelso decoratore del Pontificale conservato oggi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Ottoboniano latino 501), destinato al sovrano ungherese. Il manoscritto non fu terminato a causa della morte del re, come neanche il raffinato quanto lacunoso frontespizio della Partenice I, Mariana di Battista Spagnoli (Budapest, Országos zéchényi Konyvtár, Clmae 445), probabilmente di poco anteriore.

Nel codice vaticano l’artista utilizzò probabilmente come modello per l’impaginazione gli affreschi di Andrea Mantegna eseguiti per la cappella di Innocenzo VIII al Belvedere in Vaticano, mentre nelle scene si ritrovano echi della produzione del miniatore Girolamo da Cremona prima del suo soggiorno in Italia centrale. Non essendo il codice ancora finito, è possibile osservare le tecniche utilizzate per produrlo: i disegni preparatori sempre di una qualità molto stabile e di una sola mano, l’applicazione del colore in una seconda fase, dove è possibile distinguere più assistenti di Birago come il Maestro del Breviario Barozzi, artista veneto che aveva già collaborato con Birago nei primi anni Ottanta alla decorazione dei due volumi a stampa del celebre Breviario (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Ink.4.H.63 ) probabilmente miniato per il vescovo di Padova Pietro Barozzi.

Il Maestro del Breviario Barozzi ha cercato di adattarsi al meglio al linguaggio di Birago, ma c’è ancora più rigidità nei tratti e in alcune caratteristiche stilistiche, che lo legano alla produzione postmantegnesca, soprattutto al linguaggio del famoso pittore veneto Bartolomeo Vivarini.

Sulla base di queste osservazioni è possibile assegnare al maestro veneto un importante nucleo di codici che gli studiosi del passato hanno ritenuto di Birago, ma di difficile collocazione nella sua carriera.

Sempre nell’ambito della miniatura, uno degli elementi chiave del legame culturale tra Ungheria e Italia, bisogna segnalare i miniatori Francesco da Castello insieme al proprio maestro, il gallaratese Bartolomeo Gossi, responsabile di una delle più importanti officine di miniaturisti attive a Milano negli anni Settanta del Quattrocento. Ad essi si aggiungano il milanese Giovanni Antonio Cattaneo, frate domenicano nel monastero di Sant’Eustorgio a Milano e i suoi giovani allievi apprendisti Pietro Minuti, Francesco Bossi e Giuseppe Bascapè. Come Francesco Castello, anche Giovanni Antonio Cattaneo sono stati documentati in Ungheria successivamente al 1477, come miniatori per i libri di cassa del re Vladislav II.

Francesco da Castello, in particolare, per le sue eccelse doti fu attivo in Ungheria per il noto vescovo umanista Domonkos Kálmáncsehi, nell’esecuzione di un codice del 1481, e poi per la corte di Mattia Corvino.

Una menzione particolare va fatta per il manoscritto Cod. lat. 32 della Biblioteca Universitaria di Budapest completato nel 1463 che contiene il De architectura di Vitruvio e la Peregrina historia e il Grammaticon di Pier Candido Decembrio. Sebbene l’origine milanese del codice non sia mai stata messa in dubbio, la sua provenienza e le circostanze del suo arrivo nella presente raccolta sono ancora oggetto di discussione da parte degli studiosi. Documenti attestano la sua presenza nella Biblioteca dell’Università dal 1877, quando il sultano Abdul Hamid II lo donò all’Università di Budapest, ma sembra che fosse già a Buda al tempo di Mattia Corvino.

Un’ipotesi è che il codice sia stato inviato insieme ad altri tre codici da Ludovico Sforza al principe János Corvino come compenso per il manoscritto che aveva probabilmente preso in prestito dal principe ungherese.

L’uso del testo di Vitruvio nella traduzione in latino del Trattato di architettura del Filarete del Bonfini a Buda e lo speciale interesse di Mattia per l’architettura sono ulteriori argomenti a sostegno di questa ipotesi.

L’arrivo di Antonio Bonfini in Ungheria nel 1486, ritornando ancora nel 1488, venne favorito dai suoi rapporti con la corte napoletana, in particolare con Beatrice d’Aragona, sposa di Mattia Corvino. Le divergenze sulla successione al trono apparse tra Beatrice e Mattia probabilmente avvicinarono Bonfini al re, che, tra l’altro, commissionò la traduzione latina del trattato del Filarete. La cronologia è ancora dibattuta, ma la data più probabile è la seconda metà del 1488, poco prima del ritorno di Antonio in Italia nel dicembre dello stesso anno.

È nota la grande passione del sovrano per i libri. Possedeva già altri trattati di architettura, tra cui il sopracitato Vitruvio, e che Bonfini avrebbe potuto utilizzare per il suo lavoro di traduttore. La nuova versione commissionata dal re potrebbe essere stata motivata, oltre alla sua scarsa conoscenza dell’italiano, principalmente dal desiderio di costruire una Urbs Corviniana parallela alla Sforzinda che il Filarete aveva progettato.

Da ricordare che il Bonfini scrisse il Libellus de Corvinianae domus origine, in cui racconta la storia della famiglia corviniana riconducendone l’albero geneaologico ad antichi avi.

Anche l’oreficeria fu importante elemento di connessione culturale ed artistico, come dimostrano alcune fonti d’archivio ancora non del tutto esplorate, che dimostrano che gli orafi milanesi erano a Buda intorno al 1488, in un contesto di trattative per i preparativi del matrimonio pianificato di János, il già citato figlio illegittimo del re Mattia Corvino, e Bianca Maria Sforza. Sebbene il matrimonio non ebbe luogo a causa della morte del re Mattia, lo studio dei documenti ci conferma l’importanza che questo matrimonio doveva avere per la corte milanese, in merito all’occasione dello scambio dei doni.

Tra gli artisti più noti coinvolti nelle relazioni italo-ungherese si annoverano Filippo Rolandi, Pietro Bellano e il celeberrimo Caradosso Foppa, probabile artefice del piedistallo del Calvario di Esztergom per Mattia Corvino, imponente opera di oreficeria costituita da oro, perle e gemme, la cui parte superiore è databile intorno al 1402, mentre l’inferiore al 1487-1490, dove sono rappresentati i Trionfi del Sole, della Luna e di Giove, iconografia da collegare al matrimonio di János e Bianca Maria.

Nell’ambito dell’architettura, diversi sono stati i contributi delle abili maestranze lombarde, costituite da architetti, ingegneri, sovrintendenti, capomastri e muratori, che nei cantieri militari ungheresi e slovacchi tra XV e XVI secolo ebbero un ruolo importante.

I dati d’archivio sulla provenienza degli architetti cosiddetti “lombardi” hanno consentito di conoscere i flussi migratori, mentre i documenti nei luoghi in cui hanno lavorato rivelano informazioni sui loro diversi committenti, nazionali o asburgici. Ricerche e studi effettuati hanno permesso di ricostruire la disposizione delle fortezze lungo il confine ungherese e slovacco, la storia di alcune di esse e le biografie di molti architetti italiani che vi furono attivi.

Grazie al confronto di studi diversi sulle condizioni politiche, le esigenze della difesa e le personalità dei tecnici militari, la storiografia ha evidenziato da un lato il primato degli italiani, e dei lombardi in particolare, nell’architettura militare e dall’altro l’attività della politica militare degli Asburgo d’Austria relativamente alla problematica delle frontiere, che potevano essere difese solo da un costoso sistema di roccaforti da costruire, mantenere e presidiare.

Sia in Slovacchia che in Ungheria vennero erette, su modelli lombardi, diverse fortificazioni dalla metà del XIV secolo, quasi tutte successivamente ristrutturate sotto il dominio di Mattia Corvino.

I prototipi d’ispirazione, sempre a pianta quadrangolare con torri angolari, furono i castelli di Vigevano (1345), Bereguardo, Pavia (1360-1365), Milano, Melegnano, Pandino (1379), Sant’Angelo Lodigiano, Abbiategrasso (1381), Mantova (1395-1406), Ferrara (1383).

In Ungheria gli esiti di questi modelli d’ispirazione si ritrovano nei castelli di Diósgyőr (1360-1370), Visegrád, Tata (1397) ed Ozora dove risiedette Filippo Scolari tra 1416 e 1426, per citare i più noti.

Mentre in Slovacchia si considerino soprattutto i castelli di Zvolen, costruito come propria residenza nel 1390 dal re Luigi I d’Angiò, Vígľaš, Banská Bystrica, Bojnice, Krásna Hôrka fortificato nel 1546 su progetto dell’architetto Alessandro da Vedano.

Un argomento a sé è il castello di Bratislava, eretto verso il X secolo su un preesistente castro romano, divenne sede della nuova capitale trasferita da Buda verso il 1420, durante gli ultimi anni di governo di re Sigismondo, grazie alla sua posizione dominante, inespugnabile e centrale per il suo nuovo impero.

Tra 1431 e 1434 avvenne la prima trasformazione in stile gotico tedesco, come testimoniano l’unica finestra a bifora tamponata e la nota Porta di Sigismondo, detta anche Porta Corvino, quindi dopo la morte di Sigismondo nel 1437, gli scontri scoppiati tra i nobili locali e la popolazione, inevitabilmente, fermarono i lavori fino al restauro avvenuto tra gli anni 1452 e 1463.

Dal 1531, dopo che gli Ottomani conquistarono il territorio dell’attuale Ungheria, Bratislava divenne la capitale e sede della dieta e di tutte le autorità principali, nonché luogo d’incoronazione di ciò che rimase del regno ungherese e denominato Regno d’Ungheria, governato dall’austriaca Casa d’Asburgo.

Dopo un lungo periodo di dimenticanza, finalmente il Castello di Bratislava ritornò ad essere il centro politico fondamentale e la sede ufficiale della nuova casata reale, anche se continuò a risiedere di fatto a Vienna.

È di questo periodo la chiamata di architetti italiani per le costruzioni militari dall’Hofkriegsrat (Consiglio di Guerra) viennese, tra di essi i personaggi più importanti durante la seconda metà del Cinquecento furono Francesco da Pozzo, Domenico dell’Alilo e Pietro Ferrabosco.

Quest’ultimo fu importante riferimento per la storia della Slovacchia. Nato a Laino in Val d’Intelvi tra il Lago di Como e il Lago di Lugano nel 1512 e morto nel 1599, si trasferì prima del 1540 nell’Impero Asburgico, dove fu inizialmente impiegato come pittore di guerra al servizio di Eck Graf zu Salm und Neuburg durante le sue campagne ungheresi. Si stabilì poi a Vienna intorno al 1545 e fu impiegato a corte come pittore. Nel 1552-53 costruì lo Schweizertor della Hofburg di Vienna, e prese parte alla fortificazione di Vienna e Praga.

Il suo primo incarico in Ungheria fu la ricostruzione del castello della capitale, in stile tardo rinascimentale, tra il 1552 e il 1562. Rimangono ancora visibili sulle facciate esterne del castello alcuni motivi decorativi dipinti a finto bugnato e le sagome delle finestre, oggi tamponate, che evocano lo stile rinascimentale italiano della struttura.

Altre sue opere conosciute furono: la porta trionfale temporanea in stile manierista alle due estremità di uno scenografico ponte di barche sul Danubio, nel 1563, per l’incoronazione di Massimiliano a re d’Ungheria; la progettazione e conseguente realizzazione delle fortificazioni di Gyor tra 1564 e 1567, costituta da tre porte e una rete rettangolare di strade, divenendo la fortezza più moderna del Transdanubio; un sostanziale contributo all’esecuzione delle fortificazioni di Komárom, dove lavorò dal 1564 al 1566; la progettazione dal 1568 al 1580, insieme al figlio di Baldassarre Peruzzi, Sallustio, della fortezza pentagonale di Kanizsa nel Transdanubio meridionale; la partecipazione alla costruzione dell’ala Amalienburg dell’Hofburg a Vienna e del Belvedere a Praga; e infine, nel 1582, il progetto dei capanni di caccia a Hlavenec e Sadska vicino a Praga per Rodolfo II d’Asburgo.

Tra tutti gli scambi culturali che hanno caratterizzato i rapporti tra Italia ed Ungheria, certamente, c’è l’arte pittorica ad affresco è quella che esprime i più alti risultati, grazie anche ad un personaggio di estrema cultura che portò il Rinascimento italiano direttamente in Ungheria: il cardinale Branda Castiglioni (1350-1443).

Nel 1403 papa Bonifacio IX gli affidò una missione come nunzio apostolico inviandole in Ungheria ed in Transilvania e fu in questa occasione che instaurò una profonda amicizia con il re d’Ungheria, Sigismondo di Lussemburgo.

La nomina a cardinale, il 6 giugno 1411 da parte dell’antipapa Giovanni XXIII, rafforzò ulteriormente la sua posizione presso Sigismondo in Ungheria, dove dallo stesso anno divenne conte di Veszprém.

Il 25 aprile del 1425 Branda Castiglioni conobbe Masolino da Panicale, in quei giorni impegnato a Firenze con Masaccio negli affreschi della Cappella Brancacci della chiesa del Carmine a Firenze e, nel settembre dello stesso anno Masolino, partì per la terra d’Ungheria, chiamato dal cardinale Branda Castiglioni, che più tardi divenne il suo mecenate, importando di fatto la pittura Rinascimentale italiana in quelle terre.

L’introduzione di Masolino alla corte ungherese dipese dal condottiero Filippo Buondelmonti Scolari, detto Pippo Spano, arrivato in Ungheria all’età di tredici anni al seguito di un mercante fiorentino. Lo Scolari lavorò presso l’arcivescovo Demetrio di Esztergom fino al 1387, quando passò al servizio del re Sigismondo di Lussemburgo e, grazie al matrimonio con la nobildonna ungherese Barbara di Ozora, e all’acquisizione di una serie di privilegi, entrò a far parte della stretta cerchia della nobiltà locale, posizione che gli permise di ricoprire incarichi amministrativi anche di un certo rilievo.

La convocazione di Masolino fu per fargli dipingere la sua cappella a Székesfehérvár, terminata poi da Filippino Lippi. Allo Scolari si devono i fondi per la costruzione, a Firenze, della Rotonda di Santa Maria degli Angeli, e il finanziamento di numerose opere di pubblica utilità nei borghi da lui amministrati, come il castello di Ozora e l’ospedale si Santa Elisabetta a Lipova.

Masolino, che tornò in Italia nel 1427 dopo la morte del suo protettore, avvenuta il 27 dicembre 1426, nel 1427 ricevette gli ultimi pagamenti dagli eredi, anche se purtroppo delle sue opere in Ungheria non resta purtroppo più nulla, se non la conoscenza.

Tuttavia, molti dipinti, soprattutto gli affreschi dei primi decenni del Quattrocento sopravvissuti in alcune chiese dei villaggi ungheresi, testimoniano ancora oggi il contatto con artisti italiani.

Tra tutti gli affreschi superstiti legati agli influssi italiani, sono da segnalare quelli presenti nello studiolo dell’arcivescovo umanista di fama europea Jànos Vitèz, presso il palazzo reale di Esztergom, tra i più importanti complessi medievali e rinascimentali in Ungheria, databili tra il 1180 e il XIV secolo, restaurati da Mauro Pelliccioli in un primo intervento tra il 1935 e il 1937, e quelli con le allegorie delle Virtù, datati 1466-1467 e attribuiti da Prokopp a un pittore della cerchia di Filippo Lippi.

E sulla traccia dei forti legami tra Italia e Ungheria non si possono non ricordare gli affreschi che, sebbene siano di mano italiana, decorano il cortile di Michelozzo a Palazzo Vecchio a Firenze con mappe a volo d’angelo riproducenti le principali città del Regno d’Ungheria, su tutte Bratislava, con la denominazione antica Pozsony.

Nel 1565, in occasione delle nozze tra Francesco I de’ Medici, figlio di Cosimo I, e Giovanna d’Austria, sorella dell’imperatore Massimiliano II, il cortile venne decorato su progetto di Giorgio Vasari, e nelle lunette del porticato, vennero affrescate da Bastiano Lombardi, Cesare Baglioni e Turino Piemontese, in onore della regina Giovanna, le Vedute di città dell’Impero degli Asburgo: Praga, Passavia (Passago), Stein, Klosterneuburg, Graz, Friburgo in Brisgovia, Linz, Bratislava (Possonia), Vienna, Innsbruck (Eniponte), Eberndorf, Costanza, Neustadt e Hall.

Altra testimonianza pittorica che ricorda l’Ungheria è contenuta in un acquerello seicentesco della Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Barb. Lat. 4423, fol. 73) che conferma l’esistenza a Roma di un affresco raffigurante Mattia Corvino a cavallo, originariamente collocato sulla facciata di un’abitazione nell’angolo nord-est del Campo de’ Fiori, all’inizio della via del Pellegrino.

L’affresco, citato da diverse fonti, tra cui l’Elogia virorum di Paolo Giovio, che lo attribuiva ad Andrea Mantegna. Tra i possibili committenti dell’affresco vi sono Francesco Gonzaga o Raffaele Riario, i proprietari del palazzo cardinalizio, che si trovava allora accanto all’abitazione in questione. Per quanto riguarda Riario, va notato che la fase iniziale della costruzione del Palazzo della Cancelleria coincide con il periodo in cui Mantegna lavorava a Roma (1488-1490).

L’artefice dell’affresco ritrasse il monarca ungherese le caratteristiche iconografiche solitamente attribuite a San Giorgio, paradigma di Mattia Corvino difensore della fede cristiana contro gli Ottomani, simboleggiati dal diavolo. Questa lettura iconografica è corroborata dal fatto che Riario, quale cardinale della chiesa di San Giorgio in Velabro, incoraggiò il culto di questo santo in questa zona di Roma.

Interessante anche l’importazione in Italia dall’Ungheria di suggestioni di carattere iconografico, come il ritratto di Sigismondo d’Ungheria – ma non tutta la critica è d’accordo – identificato nella persona più anziana del Banchetto di Erode di Masolino al Battistero di Castiglione Olona, luogo di origine del cardinale Branda.

Prova ulteriore che potrebbe confermare questa ipotesi è la fisionomia della figura accanto a lui, il giovane dai lunghi baffi, che può essere paragonato con una delle figure dell’Incoronazione di Sigismondo sulle porte bronzee del Filarete in San Pietro a Roma, nonché in un giovane ritratto dal Pisanello ritenuto membro del seguito reale.

L’anziano ospite a Castiglione è raffigurato con un coltello in mano, come San Pietro nell’Ultima Cena, e un calice nell’altra, assumendo così i caratteri allegorici della Giustizia e della Fede Cristiana. Masolino lo celebra come un sovrano cristiano che, convocando il Concilio di Costanza (1414-1418), aveva posto fine allo Scisma d’Occidente.

La storia del Rinascimento slovacco, indissolubilmente legata alla medesima storia ungherese, superando i confini geografici che sono variati nei secoli, è lampante conferma che la cultura supera qualsiasi barriera orografica, politica o di lingua.

Per amore di conoscenza e di bellezza, che sono vere fonti di ricchezza, scambi di idee, fusioni di intenti, accoglienza e trasmissione del sapere, hanno generato un’indissolubile legame tra due aree d’Europa apparentemente lontane che va oltre il tempo, confermandone solidi rapporti e fondamenta storiche.

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