Un ingegno all’opera
Rapporto tra teoria e pratica
L’uomo del Rinascimento si scopre protagonista e fautore, grazie alla sua intelligenza e alla sua umana consapevolezza, di opere mai viste prima. Studia l’armonia della realtà e restituisce qualcosa di grandioso, qualcosa in grado di toccare il cielo. Si crea un legame molto forte tra la piccolezza dell’uomo e l’immensità a cui questo è capace di dare vita: egli cerca l’innovazione dentro di sé per poi trasmetterla al mondo e agli altri.
Le Tavole prospettiche di Brunelleschi
Brunelleschi mette a punto un sistema che permette di restituire in modo misurabile tanto la profondità quanto le proporzioni delle figure che sta osservando. “Inventa” cioè il principio della prospettiva, che sarà successivamente esposto nello studio teorico di Leon Battista Alberti.
La prospettiva era già stata intuita in epoca classica e indagata in ambito pittorico da Giotto: Brunelleschi la approfondisce e la spiega dal punto di vista scientifico. Conosciamo i risultati degli studi da lui compiuti grazie a due tavolette perdute che possiamo esaminare attraverso degli schemi ricostruttivi.
Su una tavoletta di forma quadrata (di lato circa 30 cm) rappresentò il Battistero di San Giovanni e, per dimostrare che il dipinto coincideva con l’immagine reale, fece un foro dal quale l’occhio dell’osservatore riusciva a vedere l’opera reale.
Aiutandosi con uno specchio, osservando l’immagine riflessa, poteva constatare la sua perfetta coincidenza con la realtà.
La verosimiglianza era accentuata dall’effetto creato da una lamina d’argento che nel dipinto cospargeva l’area del cielo, al fine di ottenere un’immagine riflessa del cielo reale e una esaltazione dell’effetto illusionistico.
In questo modo Brunelleschi intuì che, per avere una rappresentazione verosimile dello spazio reale, era necessario adottare contemporaneamente un punto di vista e uno di fuga.
Le linee ortogonali della composizione convergevano verso questo punto e dovevano essere da guida per il pittore nella rappresentazione degli elementi e del loro rimpicciolirsi man mano che si allontanavano dall’occhio dell’osservatore.
La cupola di Santa Maria del Fiore del Brunelleschi
Monumento simbolo di Firenze, la Cupola di Santa Maria del Fiore racchiude in sé soluzioni e insegnamenti che rimarranno fondamentali per tutto il Rinascimento e continueranno ad essere ripresi anche nei secoli successivi.
Filippo Brunelleschi, che aveva già lavorato presso il cantiere della cattedrale fiorentina nel 1409, partecipò al nuovo concorso del 1418 bandito dall’Opera del Duomo e dall’Arte della Lana per la costruzione della cupola. Presentò dapprima un modello in legno, vincendo ex aequo con l’orafo e architetto Lorenzo Ghiberti, successivamente nel 1423, riuscendo a risolvere i problemi tecnici della costruzione, venne incaricato di sovrintendere a tutti i lavori.
Vi dedicò tutta la sua vita: nel 1434 si concluse la struttura, nel ’36 fu posta la lanterna e nel ’38 vennero costruite le quattro tribune.
La chiesa di Santa Maria del Fiore era stata costruita su progetto di Arnolfo di Cambio nel 1300 e ampliata da Francesco Talenti nel 1360.
Alla fine del Trecento Giovanni di Lapo Ghini aveva realizzato il tamburo ottagonale per l’erezione della nuova cupola, che avrebbe avuto un diametro di 41,50 metri: un progetto impensabile per le conoscenze dell’epoca. Il primo problema che Brunelleschi dovette affrontare fu di ordine tecnico: l’enorme copertura avrebbe richiesto dei ponteggi che partivano da terra e delle centine lignee per sorreggere la cupola, fino alla sistemazione della chiave di volta ma questo comportava dei costi e delle difficoltà insostenibili.
La peste nera del 1348 aveva poi causato, tra le maestranze, l’interruzione della trasmissione delle nozioni pratiche per la costruzione.
Si trattava di trovare una forma estetica che rispondesse all’edificio preesistente e che desse una maggiore visibilità al Duomo in relazione a tutto lo spazio urbano.
Brunelleschi riuscirà non solo a presidiare al momento tecnico operativo, ma a svolgere una funzione progettuale mettendo a punto la struttura dell’edificio e il sistema di ponteggi e di macchine in grado di ottimizzare gli sforzi.
Con lui la figura dell’architetto si evolve da semplice interprete di un “arte meccanica” a vero e proprio intellettuale, interprete di un “arte liberale”, da capomastro a vero e proprio progettista.
Seppe organizzare efficacemente un cantiere capace di rispondere alle esigenze delle diverse fasi della costruzione.
Idea uno straordinario sistema a doppia cupola a sesto acuto formata all’esterno da 8 costoloni in marmo bianco tra i quali si tendono le 8 vele ricoperti da mattoni in cotto. I costoloni hanno la capacità di scaricare il peso direttamente sul tamburo ottagonale posto alla base. Alla cupola interna, più piccola e più robusta, è affidato il compito di sorreggere quella più esterna, alla quale fornisce sostegni intermedi. Questo sistema fa sì che le vele si sostengano tra loro, oltre che autosostenersi grazie alla particolare disposizione dei mattoni, posti a spina di pesce. Tra le due calotte corre inoltre un’intercapedine, cioè uno spazio che, racchiudendo al proprio interno un sistema collegato di scale e corridoi, giunge fino al piano su cui si imposta la lanterna.
Grazie al maestoso ingegno del suo architetto, la cupola sembra lievitare verso l’alto, gonfia e leggera, tanto che secondo il Vasari «i monti intorno a Fiorenza paiono simili a lei». Nonostante i numerosi elementi architettonici presenti, la “Grande Macchina” del Brunelleschi, così definita da Michelangelo, risulta un’opera continua nella sua muratura e descritta da un’armonia efficace a far comprendere all’uomo medievale la grandezza e la novità di un’epoca che cambierà completamente la prospettiva con cui lo sguardo e l’intelligenza umana guarderanno la realtà.
La Trinità di Masaccio
Tra il 1425 e il 1426 Masaccio dipinse l’affresco rappresentante la Trinità nella terza campata della navata sinistra della Basilica di Santa Maria Novella, a Firenze.
È ritenuta una delle opere pittoriche più rappresentative del Rinascimento italiano.
Sintesi perfetta di pittura, scultura e architettura, la composizione è studiata in modo tale da far percepire la cappella come se non fosse solamente dipinta, ma costruita, oltre lo spessore del muro.
La narrazione si svolge entro una finta architettura dipinta, in cui fortissimo è il richiamo al mondo classico: dalla volta a botte a lacunari, agli archi a tutto sesto, alle paraste con capitello corinzio, alla trabeazione con medaglioni ornamentali.
Alcuni storici dell’arte hanno supposto che, data l’evidente somiglianza con i coevi progetti di Filippo Brunelleschi, l’architetto avrebbe preso parte all’elaborazione grafica, se non addirittura alla stesura pittorica della quinta architettonica che incornicia la rappresentazione.
Del resto, anche nelle sembianze del Crocifisso dipinto, è possibile rivedere i tratti del Cristo scolpito da Brunelleschi e custodito sempre in Santa Maria Novella.
Di fronte all’affresco di Masaccio lo sguardo dello spettatore viene condotto dal basso verso l’alto in una sequenza che dal tema della morte conduce progressivamente verso la salvezza eterna. In primo piano si trova un sarcofago, sul quale è adagiato uno scheletro, che reca il monito IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON VOI ANCO SARETE, una riflessione sull’ineluttabilità della morte ma anche sulla certezza della testimonianza del Cristo Risorto.
Seguono in secondo piano le figure inginocchiate in preghiera dei committenti: invocano l’intercessione dei santi, San Giovanni Evangelista e la Vergine Maria: quest’ultima indicando Gesù Crocifisso guarda dritta verso il fedele che si accosta al Mistero di salvezza, e diventa tramite per il suo ricongiungimento con Dio. Al centro della composizione troviamo infine le figure della Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, disposte secondo il modello iconografico chiamato “Trono di Grazia”, con il Padre che sorregge il corpo di Cristo. Questi è già Mistero della Resurrezione del popolo dei fedeli, riunito nella Sua Chiesa.
Grazie al maestoso ingegno del suo architetto, la cupola sembra lievitare verso l’alto, gonfia e leggera, tanto che secondo il Vasari «i monti intorno a Fiorenza paiono simili a lei». Nonostante i numerosi elementi architettonici presenti, la “Grande Macchina” del Brunelleschi, così definita da Michelangelo, risulta un’opera continua nella sua muratura e descritta da un’armonia efficace a far comprendere all’uomo medievale la grandezza e la novità di un’epoca che cambierà completamente la prospettiva con cui lo sguardo e l’intelligenza umana guarderanno la realtà.
NOVÉ ZÁMKY
È una cittadina della Slovacchia sud-occidentale, situata lungo il fiume Nitra, nata con lo scopo di rispondere alla crescente minaccia ottomana.
Nel 1545, al tempo dell’arcivescovo Pavol Várdai, nacque il primo insediamento: si trattava di un semplice castello palizzato con quattro bastioni che, poco tempo dopo, l’arcivescovo Nicholas Olah fortificò a sua volta ribattezzandolo “Castrum Novum” e, successivamente, Oláhújvár (Il nuovo castello di Olah).
All’epoca era una delle più moderne fortezze d’Europa. Tra il 1576 e il 1580 il Regno di Ungheria ne ridisegnò la pianta in forma esagonale, in linea con i nuovi modelli costruttivi che si stavano diffondendo in Europa.
La seconda fortezza rinascimentale della città fu costruita in un terreno paludoso sulla riva destra del fiume Nitra tra il 1573 e il 1580.
Fu progettata dagli architetti italiani Ottavio e Giulio Baldigari come una struttura a pianta esagonale, con sei bastioni nella parte superiore e altri massicci bastioni a navata unica per l’artiglieria, due accessi e un complesso sistema di tunnel nei sotterranei.
Le mura erano circondate per tutto il perimetro da un ampio fossato collegato al fiume Nitra.
La nuova fortificazione divenne la più moderna fortezza rinascimentale del suo tempo e Nové Zámky il primo centro per la difesa anti-turca nella Slovacchia occidentale a cavallo tra il XVI e il XVII secolo.
Alla caduta della fortezza di Nové Zámky, conquistata durante l’offensiva dell’Impero Ottomano il 26 settembre 1663, seguì la costruzione della fortezza di Leopoldov tra il 1665 e il 1669, progettata dall’architetto L. de Souches e realizzata dagli ingegneri militari Ján Melicher e Jan Ungern alla guida di un team di 3000 operai provenienti dalla Baviera e dalla Moravia.
Costruita in stile rinascimentale e dotata delle migliori difese militari dell’epoca, presenta una pianta a forma di stella a cinque punte collegate da rivellini e circondata da un ampio fossato. Si estende su una superficie di 56 ettari e le mura difensive sono alte 9,5 metri.
La fortezza venne riconvertita in una prigione nel 1855 e ricevette i primi prigionieri nel 1856. Divenne famosa dopo la Rivoluzione di febbraio, quando il governo comunista ceco-slovacco imprigionò e liquidò i prigionieri politici.